Quella, se la riconosci, è la casa in cui venivamo in vacanza negli anni sessanta.
E’ lì, abbandonata da tempo.
Ci sono tornato ieri e ho rivisto la stanza dove abbiamo concepito nostro figlio. Il più piccolo.
Era la fine d’agosto, forse. Il giorno dopo, saremmo partiti per tornare a casa con la littorina.
Ti ho vista per un attimo, affacciata alla finestra che dava sul sentiero che portava all’entrata.
E’ lì che ho parcheggiato la macchina, per tornare come un ladro a fare visita al nostro ricordo, cinquantaquattro anni dopo.
L’ho trovato coperto di rovi, carcasse di lavatrici, e di insulti del tempo.
C’era anche un’agave sconfitta.
Mentre percorrevo quei pochi passi, mi è venuto di cantare la stessa canzone di allora, a labbra strette. Immaginando tu fossi alla finestra come quella sera, gonfia d’estate, soda e colpevole di amarmi.
Ho spinto la porta sconnessa che come allora, zuccava per terra su una piastrella rotta. La stessa di allora.
Forzando con decisione per oltrepassare quel punto, lo scuro interno attaccato all’anta, ha sbattuto contro il muro. Un eco secca ha vagato in quella che allora era la nostra cucina.Sporca vuota, e piena di monconi di biciclette senza ruote.
Per un attimo ho temuto che qualcuno avesse notato quella mia intrusione.
C’era anche un panchetto che ho rubato e sul quale sono seduto ora. In fondo, in un antro di macerie, un frigorifero bombato con la scritta Kelvinator arrugginita. Colmo di camere d’aria. Alcune, riposte malamente dentro le loro scatole mezze strappate e altre ancora, perfettamente allineate in base alle misure. Altre ancora, sventrate.
Disegni osceni ed insulti urlati sui muri. Ho sperato davvero che nessuno mi abbia visto entrare di nascosto.
Ricordo di una sera che eri appoggiata sul davanzale della prima finestra da sinistra. Le braccia intrecciate ti spremevano il seno fuori dai bordi. Eri come sulla cima di un’onda e vedendomi arrivare sembravi dirmi, vienilo a prendere. E’ tuo.
Non me lo feci dire due volte. Ma m’intimidiva spogliarti, anche se era mio diritto farlo.
Qualche giorno prima ci facemmo una foto insieme, mentre eravamo affacciati alla stessa finestra.
Non ricordo, chi l’avesse scattata. Forse uno di quei tre fratelli un po’ cretini, che abitavano nella contrada di fronte la nostra. Passavano puntuali tutte le sere alla stessa ora, di ritorno dal mare. Con gli asciugamani arroccati sulle spalle dorate e le caviglie piene di sabbia nera. Al più piccolo, toccava di portare a spalla una borsa frigo nuova e fiammante. Era la novità di quella estate. Non mancavano mai di farci una visita. Credo per guardare te, per come tu fossi abbondante.
Passarono anche quella sera, mentre Paolo veniva concepito. Uno di loro fischiò lontano dalla strada inghiaiata di ciottoli rossi. Si avvicinava quatto, mentre a piedi nudi cercava i ciuffi di gramigna sui quali sostare in punta di dita. Per non ferirsi. Il braccio destro indietro per controllare l’equilibrio. Lo vidi di traverso, riflesso nel vetro della finestra aperta. Mentre quello ci chiamava, gli altri due rimanevano immobili. Erano fermi, pochi passi indietro a bocca aperta, ad aspettare che uno di noi si affacciasse alla finestra, che dalla strada non sembrava essere aperta o chissà.
Ma tu eri sotto di me, ed io dentro di te, e con il dito sulla bocca ridendo muta, m’implorasti con gli occhi targati di un garbato ebano nero, di non rispondere a quella chiamata.
Mentre la finestra ci vomitava la sera addosso, a tutto pensavo in quel preciso istante, tranne che mi sarei dovuto un giorno, separare da te.
Sul fare della notte, ho chiuso la porta. Fino alla mattonella, lasciando la porta aperta. Poi ho guardato la casa da quello stesso punto dal quale ti avevo fatto la foto. Verso la finestra, a cercarci inutilmente.