Ho un vago ricordo del contorno di quel mattino di prima estate di 35 anni fa.
Avevo smontato dal servizio di guardia al ministero dell’ Aviazione, dove prestavo servizio mio malgrado. Allora, la leva militare, era obbligatoria. Avevo passato una notte insonne a sorvegliare la cassaforte dell’edificio, in un corridoio ipnotico ed estenuante, dove mi sembrava veramente poco probabile che fossero custoditi dei soldi.Ci alternavano alla custodia di un ufficio dalle grandi vetrate. Quattro ore di sonno e due di veglia.
Verso l’alba fui spostato al giardino adiacente l’edificio, e complice dell’auricolare che mi legava ad una minuscola radio a transistor, lo ammetto, caddi addormentato nel prato stringendo il fucile di ordinanza crogiolato dal primo pallido sole. Fui svegliato dai colpi di tosse sempre più insistenti, dal capofila del gruppo che veniva a controllare il mio operato verso le 7 del mattino. Lo sentii, con l’estremo angolo dell’occhio che avevo tenuto aperto. Dietro, in fila indiana, l’ufficiale di picchetto e altri due. Per un puro caso riuscii alzandomi, a dare l’impressione che stessi compiendo il mio dovere intimando l’altolà al gruppo, e con il cuore gonfio di paura per la punizione in cella di rigore che sembrava essere scontata. L’ufficiale di picchetto, l’unico al quale poteva interessare infliggerla, forse aveva più sonno di me e non si accorse o meglio ancora fece finta di…
Fu la mia ultima guardia. Decisi in quel risveglio, che avrei fatto di tutto per terminare il servizio militare prima della sua naturale fine.
E così fu, ad opera di un complicato intrallazzo, che posi in essere nelle settimane seguenti. Tornando a casa meditavo sulla fortuna che avevo avuto e su come organizzare la mia fuga nei dettagli. Aprendo il portone, mi ricordai di essere solo. In casa avvertii un odore prepotente di radici strappate e ancora avvolte di terra bagnata, che venivano dal terrazzo. Mia madre, aveva sradicato le ortiche dai vasi in fioritura, la sera prima. Le finestre erano aperte. L’unica ad essere socchiusa era quella della mia camera, che per mio espresso desiderio in quella stagione, doveva rimanere in quella posizione per lasciare la camera, nella penombra che preferiva.
Fuori sul muro, proprio accanto alla cornice di cemento che guarniva la finestra, salendo sulla grondaia del piano che abitavo, il quinto, avevo disegnato un grande asterisco bianco con una vernice bianca. Per trovarla da lontano con lo sguardo. E per ritrovarvi puntualmente affacciata, mia madre, quando al mattino andavo a piedi al ginnasio. Sapevo che era lì a guardarmi, neanche partissi in viaggio per Macao. Facevo quel tragitto, partendo da quel punto, tutte le sante mattine. Con qualsiasi tempo, andata e ritorno.
Ma quel giorno in casa non c’era nessuno. Al mio entrare in camera, volsi lo sguardo alla mia radio. L’avevo comprata un anno prima da un rigattiere di Copenaghen dove vivevo.
Era grande, di legno lucido, e di notevole potenza. Aveva dei pomelli che con il tempo si erano usurati, cosi come i supporti che trasmettevano il movimento a quel complesso insieme di valvole che era al suo interno. Era del 1935. Segnava tutte stazioni del Mar Baltico e della Russia, sulle quali a volte a notte fonda mi sintonizzavo per sentire l’Internazionale in versione originale.
Era posizionata al centro di un grande mobile basso e lungo, all’interno del quale custodivo le mie cose più personali ed intime. Ci tenevo anche dieci milioni di lire che un mio amico del Pigneto mi aveva dato da custodire. Nascosti in una intercapedine che avevo creata apposta.
Guardai la radio con quello sguardo tipico di chi cerca una risposta. Non avevo soldi per comprare dei dischi ed era il mio unico contatto con la musica, complice un suono felpato e maschio che diffondeva.
Mi ero spogliato di tutto e prima di sdraiarmi, l’accesi, e mi avviai lemme verso il letto al fianco del tavolo da lavoro dove ero solito cucire mentre l’ascoltavo la sera, rigorosamente a porta chiusa quasi di nascosto da mia madre. Provavo gelosia della mia intimità con la mia radio e di ciò che via via ascoltavo mentre lavoravo.
Ricordai a me stesso di aver sentito, durante il turno di guardia di qualche giorno prima, un pezzo di cui non avevo fatto in tempo a capire il titolo, ma ricordavo, che si trattava di un tale Ravel. Maurice. E quell’ascolto aveva provocato un tarlo dentro di me, tale da pretendere un bis.
Ci vollero alcuni minuti perché il volume cominciasse a partorire il suono. Le valvole si dovevano scaldare. Cosi mi disse l’uomo che me l’aveva venduta gesticolando in danese come se io di radio, fossi un esperto.
Mentre nudo mi accomodavo sul letto rifatto, senza la minima referenza per il suo ordine, pensavo alla fuga dalla caserma. Quando ad un tratto, silenzioso e impalpabile, con un glissante inizio di archi, la Pavane pour une infante défunte, invase la camera e la mia voglia di fuga.
Il pezzo che qualche attimo prima avevo desiderato. Da quel giorno, ovunque io sia vissuto, la radio nella cucina è sempre accesa. Giorno e notte.
Ieri Vergo, un amico, mi ha chiesto:
Perché tieni la radio sempre accesa, anche quando non ci sei ?
Perché non si senta mai sola..