Mi hanno detto che te ne sei andata, con un lento respiro strozzato nel mentre. Ed io non c’ero.
Ti sei portata via la dichiarazione di guerra del 40, un’ Ardea 4 porte, le botte di quell’orco di tuo marito, la foto di quel pomeriggio sul selciato di Piazza dei Cinquecento e Paoli che algido cantava,“Sassi”. E poi ancora una delle prime protesi all’anca in titanio. Eri zoppa.
Mi è parso di vederti in quell’ attimo, mentre qualcuno che ti reggeva la testa. Ho sperato che ti tenesse la mano, mentre nell’ altra la tazza tracimava di paura. Fuori le montagne recitavano mute l’impeccabile copione di sempre. Un’alba sovrana incespicava, tra incubi non ancora sedati del tutto. La grande vetrage friggeva a fuoco lento la tua stanza d’ospedale. Tutto inutile, compresa questa insipida rappresentazione, che nulla ha a che fare con l’orrore che hai provato lasciandomi.
Io ero lontano dal tuo letto. A fare una consegna in Emilia e non sapevo quanto tu fossi grave. L’ennesimo trasloco. Pieno di paura che qualcuno mi fermasse per dirmi che avevo esagerato con il carico. Alla notizia che te ne eri andata per sempre, mi fermai con due ruote nel fosso della cunetta a farti compagnia. Il motore spento, e spenta anche la radio. Il fiume che la strada aveva rincorso fin lì, ingrassava indolente l’ansa alla mia sinistra. La bottiglia che era sul sedile di destra, ciondolava con me. Dissi a me stesso, che tu mi avresti detto di continuare il mio viaggio e poi raggiungerti. Non potevo voltarmi, e carico com’ ero, ci avrei messo un giorno a tornare indietro. Se mi fossi svuotato anche io, sarei stato più veloce a venire da te. Scaricato tutto ripercorsi la strada all’indietro, così come si rilegge lo schifo impietoso di un esame andato male. Il solito 5 che poteva passare al 7.
Nel pomeriggio passai all’ospizio a prendere i tuoi vestiti e lì ebbi la certezza di quanto era successo. Raccattai le tue modestie, gli occhiali, la radio, i tuoi denti, il comodino che ti, eri comprata, credendo che fosse bello. Le fotografie dei tuoi cari, e quell’infinito grumo d’amore che ti strappava per sempre da me, senza che ci fossimo perdonati per bene. Passai dalla tua casa natale per prendere dei fiori, se mai ce ne fossero stati di pronti. Lungo la strada verso il tuo corpo, non ho fatto che fermarmi per cogliere i più freschi. Dai giardini abbandonati degli altri, dagli alberi d’aprile. Dal quel piccolo tedio di rovi e di sassi dal quale siamo sortiti entrambi malconci.
Il mattino successivo ti ho trovata vestita come una regina che va in sposa, con la lunga veste bianca di tua madre che ti eri conservata per l’occasione. Gli eccessi ormai spenti, ed avvolta da un vago puzzo di bosso, sparso nell’aria.
Due giorni dopo, mentre aspettavo il turno che ti avrebbe resa cenere, feci visita ad un cimitero qualsiasi. La sterminata palude dei tuoi nuovi amici. Quelli che ci sembrano un film, e che non siamo noi. Quel maculato e scomposto recitare del tempo attraverso la muffa. Vite perfette e ragionevoli lapidi meste. Se ne erano andati come te, onesti ed esemplari lasciandoci da soli, con la colpa di non aver compreso, assolutamente nulla.
Ti ho raccolta calda come un pane appena sfornato, nascondendo l’urna di vetro in tasca come un ladro e lento, ho assorbito l’ultimo tuo calore tra le mie mani, impotenti nel darti pace. Tra la cenere delle tue ossa, qualche piccolo pezzo di metallo brillante. La protesi. Ora sei sul mio tavolo. Per sempre.
Ogni notte ha spinto perché uscissero queste parole, allo stesso modo come una larva a fatica, ha spostato la misera terra che la copre. Caro Omero. Cari Helmer, Berta e Tom. Caro Lucio anche tu. Cara madre. Caro dormire sulla collina “finché il grano non sia maturo per la falce”.
Ho chiesto di avere soltanto il tuo orologio a muro come tuo ricordo. L’ho fatto riparare perché tu mi aiutassi a scandire il tempo che mi rimane, e non dico per ritrovarci. Non pretendo più nulla, ma sono stato tuo figlio sì. Ciao.