Quando, sul finire dell’anno, mi fu proposto di andare in montagna, sulle prime ero veramente indeciso. Poi ad un tratto, mi era balenata in testa la parola Ent.
Pur sapendo che non si trattasse di veri Ent, l’associazione successiva fu quella degli uomini vestiti di erba, della comunità Ladina. Il terzo e finale step, fu collegare tra loro quelle chiamate, e unendole scoprii il carnevale Ladino. Si celebra proprio in Trentino dove mi dovevo recare, e si nutre di questi personaggi. Uomini alti vestiti di muschio, si erano improvvisamente affacciati nella mia testa, misti a ricordi e sensazioni di magie malvagie, benevole e silvestri, di un racconto di Buzzati. Ma sono sicuro che ci fosse anche dell’altro. La chiamata era fin troppo evidente perché io vi rinunciassi.
Decido di unirmi al gruppo e di partire. E di non raccogliere altre informazioni, lasciando al caso il resto. Questo è il resoconto.
Un viaggio riposante e un arrivo al mattino, senza particolari eccitazioni. Mentre il gruppo che accompagnavo si precipita sui campi da sci, scelgo di andare in alto fin dove la luce del giorno mi potesse consentire di fotografare e ritornare in tempo per la cena.
Scorgo sulla sinistra della strada che mi porta al passo, un fiume adagiato in una forra scura e gelida. Un imperativo fermarsi. Accostata la macchina con due ruote nella neve e due sull’asfalto, scendo a fotografare il ghiaccio con la parola ENT in testa. Poi al Lago di Carezza coperto di ghiaccio anch’esso. Decido che quello potrebbe essere il posto dove fare le foto notturne, luna piena volendo. Torno a valle che ormai è buio con la sensazione di aver afferrato poco. Ci dormo su, e la mattina dopo, mentre il gruppo va a sciare, zaino in spalla chiedo al tipo della reception dell’ Hotel, se sa indicarmi qualcuno che produce maschere di legno. Mi dice che devo andare al museo delle tradizioni Ladine. Lassù, in alto al paese, spiegandomi la strada su una cartina. Camminata di 2 km.
Il museo è recente. Molto bello. Cerco di attaccare discorso con il bigliettaio che non mi considera. Tutti i reperti esposti, i vestiti, le maschere, gli attrezzi, i mobili, emanano una magia particolare almeno per me che cerco i miei link interiori. All’ultimo piano nascosto dietro una parete di cartongesso, trovo a sorpresa il Salvan … l’ Ent. Interamente ricoperto di muschio secco, naso e viso pronunciati, che nel ricordo somiglia ad una composizione dell’ Arcimboldo, mi pare, mi fa capire, che non sono arrivato fin li per caso.
L’ostacolo evidente a quel punto, diviene trovare qualcuno che produce le maschere. Scendo di nuovo all’ingresso per uscire, e i bigliettai sono diventati due. Uno giovane, l’altro più vecchio con faccia da sindacalista. Mi complimento per il museo. Ma, non è loro e quindi, non gliene importa nulla. Alla mia domanda su chi produce le maschere, mi dicono di andare giù in paese dove ci sono i negozi di souvenir. Mi sto per arrabbiare, e dico al giovane, che se prova ad ascoltarmi forse comprende la mia richiesta. Stizzito, mi risponde che le maschere le fanno a Penia, pochi km lontano. Corro in albergo prendo la macchina e vado a Penia. Entro nel bar che mi è stato indicato. Penso, se prendo qualcosa, magari, saranno contenti di darmi qualche informazione. Mentre sto per chiedere alla signora di farmi un caffè, noto su un lato un tavolo con tanta insalata, un vecchio e i due nipoti che si sono messi a tavola per il pranzo. Mi coglie una nostalgia infinita, per ciò che di più caro esiste. Chiedo alla signora se posso mangiare anche io e che non voglio più il caffe. Rimango in disparte per poterli guardare, e a distanza mangiare con loro. Sono seccato di apparire come un turista per l’ennesima volta. La sala è vuota, tranne una donna sulla quarantina, che sola come me, ascolta la musica in cuffia. Pochi km più in là, la gente si massacra per prendere lo skilift. Mentre mangio, cerco con gli occhi tracce di maschere, ma non ne vedo. Forse ho sbagliato posto. Alla fine deciso mi avvicino al bancone e chiedo informazioni. La signora mi dice che quelli che fanno le maschere lavorano tutti negli impianti di risalita, e che non troverò nessuno a casa, fino a sera… Buco nell’acqua. Esco per fare due passi, e divento all’improvviso, quello che era entrato poco fa, nel bar alle mie spalle. La signora che stava al tavolo di fronte, uscita anche lei, mi indica la casa di uno che fa le maschere..Andrea il più bravo. Abita nella casa celeste alla fine del paese. Arrivo fin lì dopo aver attraversato l’antico borgo, e non trovo nessuno. Vedo una cantina aperta, dalla quale esce il fumo dello stallatico. Qualcuno spala dentro. Busso e propongo la stessa domanda. Mi dice di andare a trovare Enzo che sta in quella casa laggiù, vicino al ponte di legno sul canale, oppure da Andrea in piazza a Canazei, di fronte a San Floriano.
Vado da Enzo, suono al portone, risponde al citofono e mi butta giù senza attendere che io riesca a dire qualcosa di convincente. Non so cosa fare, se suonare di nuovo, o attendere o andare via. All’improvviso si apre il portone dello stabile, e si affaccia un uomo minuto e appuntito come una matita. Si appoggia allo stipite della porta a braccia conserte, con il fare di uno che vuole provocare. Solo allora capisco di essere su una strada complicata e piena di prove da superare e mi chiedo, perché dovrebbe essere diversamente. Gli dico che sono un fotografo, e lui mi dice, ah…lo so bene! Senza accennare un sorriso. Venite tutti da me, prosegue, che sono il presidente dell’ associazione delle maschere, ci chiedete di fare le foto e poi scomparite. Uno, lo scorso anno, aggiunge strafottente, è venuto, ci ha fatto le foto e poi ha mandato qualche scatto, e ci ha detto che se volevamo il resto, le dovevamo pagare. Questa l’ho già sentita…. Poi mi dice, che ora le maschere non si possono vedere, perché sono tutti al lavoro, e che se voglio, torno nel periodo di carnevale. E due.
Gli spiego, quasi con reverenza, che sono venuto lì per via della luna piena di domani e che a carnevale non so se potrò tornare.. Ci scambiamo i numeri, abbozzo delle scuse a nome della categoria. Me ne vado da Andrea. Fatto qualche chilometro, mentre cercavo di ricordare una casa che avevo visto all’andata tutta circondata da tronchi di legno, suona il telefono. Il presidente dell’associazione delle maschere di Penia, si era reso conto di avermi trattato male e mi vuole regalare un bel libro. Torno indietro, perdo la casa che volevo fotografare, e una volta ritirato il bel volume, ringrazio e vado da Andrea.
Ricordo solo il nome della chiesa. Parcheggio lontano e vado a piedi. E’ già pomeriggio inoltrato. Lungo il cammino, una famiglia di napoletani mi ferma nei pressi di un giardino, in cui sono esposte delle opere artigianali in rame battuto e rivettato. Si tratta per lo più di “tabernacoli” pagani, in cui sono raffigurati in maniera ossessiva animali in prevalenza galli e uccelli. Nella parte bassa ci sono delle macabre teste di bambola inserite sul corpo anch’esso fatto di rame. Appaiono essere dei pupazzi, simili a delle macumbe, più che a dei figuranti, oLari. Credono i napoletani, che io sia l’autore di quella roba, e mi chiedono i prezzi. Mi hanno già seccato.
Rispondo in inglese che non parlo italiano. Arrivo alla chiesa e il negozio che cercavo, è chiuso. Scorgo sul lato opposto un ragazzo sulla trentina. E’ molto alto. Indossa dei pantaloni di fustagno nero, di almeno due misure più grandi, e con una banda laterale ancor più nera. Gli occhi cerchiati da un incarnato più chiaro. Come di chi sia solito proteggersi gli occhi, dal sole montano. Mani affusolate lunghissime. Un corpo e una ossatura esile e ciondolante, dentro vestiti grandi il doppio. Leggermente incurvato sulla schiena, tale da farlo sembrare quasi figlio di vecchi. Lo apostrofo da lontano, mentre deciso sta per entrare nella porta di un albergo. Mi guarda mentre seguita a salire quei pochi gradini che parano all’albergo, di cui ho capito, è il portiere. Mi fa cenno di avvicinarmi e di entrare e di seguirlo. Gli spiego cosa sto cercando. Mi dice senza parafrasare, di non andare da Andrea perché fa roba dozzinale, ma da Claus Soraperra. Il nome mi piace, anche se so che non lo ricorderò con facilità. Mi spiega pazientemente, dove trovarlo e me lo scrive su una cartina, e mi da anche il suo numero nel caso io abbia problemi a trovarlo. Attraverso tutto il paese indeciso, se seguitare a dare retta a quella catena di Sant’ Antonio, o riconoscere che sto perdendo il mio tempo sapendo per giunta, di potermelo permettere. Gli unici 4 giorni di vacanza, in un anno intero.
Aiutato dalla cartina arrivo a casa di Claus. La casa è tutta affrescata esternamente. Sono affreschi recenti che mostrano il papà di Claus, raffigurato insieme ad un noto fotografo delle Alpi, tale Dantone. Il primo che immortalò queste montagne, su lastre fotografiche di vetro. Dopo un periplo di scale, una ragazza mi apre la porta affacciata su odori di porri a bollore, e mi riporta di sotto, dove si trova la cantina di Claus. Questi è il figlio di un padre, famoso scultore locale, il quale mi dice che lo stesso, si è gravemente ammalato. E’ tornato dall’ospedale il giorno prima, e non vuole vedere nessuno. Gli spiego che non voglio disturbare, e il motivo della mia richiesta. Faccio uno sforzo ancora, cercando di aprire uno spiraglio circa le mie intenzioni, e gli spiego che fotografo nelle notti di luna piena, e che avrei bisogno di una bella maschera da utilizzare stanotte.
Come folgorato, zittisce e quasi toccandomi con la mano, e tenendo il braccio teso, sospendendo per qualche secondo il dialogo. Puntandomi l’indice, come mi conoscesse da una vita, mi dice, che la persona giusta è Fulvio. Abita nel paese dove sono alloggiato. O almeno molto vicino. Mi dice che Fulvio, è uno sciamano. Un personaggio del posto, e di chiedere all’albergo dove sono ospite affinché qualcuno, mi possa indicare dove vive, perché lui non lo sa.
Incomincio a nutrire qualche speranza, e al tempo stesso mi sento carico di quella stanchezza che partoriscono, a volte, i dubbi. Come se stessi forzando la mano. Decido che dopo il prossimo passo, mi fermerò qualsiasi esito negativo, mi avesse dato la ricerca. E’ ormai notte. Fila lunghissima di macchine per ritornare in albergo. Arrivo che gli sciatori sono rientrati. Prima di salire in camera vado dal direttore dell’albergo, ringraziandolo per avermi indicato il museo quella mattina, e che quel primo passo mi aveva infine condotto a casa di Claus, ed è sottointeso che, ora stava a lui girare l’ultima carta. Dal mio sguardo capisce che deve farlo subito e non domani mattina. Mi conferma che Fulvio lavora alle funivie, ma a quest’ora sicuramente lo trovo a casa. Ci vada direttamente, mi suggerisce. Preferirei chiamare, gli rispondo, visto che mi ero imposto di non proseguire di fronte a qualsiasi esito negativo. La telefonata avrebbe potuto lasciare aperto qualche varco. Cerca il numero. Mentre parla, non posso fare a meno di pensare, che sta li in quell’ufficio dal mattino alla sera, e che è pieno di tic. Mi fa venire voglia di imitarlo, o almeno di provarci una volta in macchina o in camera. Per capire cosa si prova.
Mi scrive il numero, ma è mancino. Alcuni numeri sono scritti male e una volta provato a chiamare mi dice che il numero è inesistente. Sono sul letto scoraggiato. Ormai sono le 18. Chiedo ad uno del gruppo, se mi accompagna a casa del tipo. Se qualcuno, lungo la strada, mi desse delle indicazioni a voce, sicuramente non capirei. Ho problemi di memoria, e la mia breve, è anche più corta. Poi non ho più gli occhiali e non ci vedo di notte. Uno di loro decide di accompagnarmi e di guidare. Accende il navigatore, ma non trova la strada. Penso tra me, che di sicuro ci sarà qualcuno che a quest’ora, porta a fare la pipì al cane. Appare a pochi metri una donna con un lupo al guinzaglio. Accostiamo e le chiedo se cortesemente, mi sa indicare la casa di Fulvio. Quello che fa le maschere. Mi indica quella finestra li… quella accesa. Non ci vedo, ma la vedo appannata, a poche decine di metri. Suggerisco a chi mi accompagna di accostare e di aspettarmi in macchina, e che poi lo avrei fatto entrare ad un mio segnale.
Penso che non ci si presenta sul far della notte, in due, a casa di sconosciuti. Suono.
Mi viene detto al citofono, stravolto da sinistri sfrigolii elettrici, di entrare e accomodarmi. Varco in un ingresso angusto, dai soffiti bassi e le cui pareti sono avvolte da decine e decine di pietre e di minerali. Un grosso baule di legno, chiuso con un lucchetto sulla destra, e dei gradini sulla sinistra, costruiti con sassi di fiume. Dall’ alito caldo della scala, proviene un ciabattare in discesa, anticipato da un urlo..Arrivo !
Compare davanti a me un omino basso con dei lunghi baffi e pizzetto che ricordano Asterix. Rosso in viso e la cima della testa bianca. Tipica colorazione di chi sta tanto al sole con un berretto. Dentro una voce mi dice … ci siamo. Gli spiego il motivo della mia visita. I suoi occhi si illuminano, e mi apre un baule pieno di maschere. Mi scuso per l’orario e gli dico che fuori qualcuno mi aspetta in macchina e che non vorrei fargli perdere tanto tempo. Mi dice di chiamarlo e di farlo entrare. Andiamo tutti nel suo laboratorio pieno di ciocchi di cirmolo. Sgorbie, scalpelli e trucioli. Qualche figura abbozzata. Vorrei fermarmi a lungo. Poi via nella cantina, dove tiene i diavoli vicino alla caldaia. Per ultimo in cima alla scala, appesa ad un chiodo, la maschera di uno sciamano con la testa piena di piume di fagiano. E’ lui. Ma ancora, non oso chiedere. Ci porta di sopra, dove probabilmente vuole sentirci parlare e guardare negli occhi. Si entra in una stanza tutta foderata di legno e di affreschi su legno. Dietro la porta una stufa di terracotta grossa quanto un armadio. Si scoppia di caldo. Gli spiego che fotografo spesso nelle notti di luna, e che sono alla ricerca di qualche artigiano del luogo, che mi possa prestare una maschera per fare degli scatti. Lui stesso, per me sarebbe stato giusto per le mie foto, e gli chiedo di scusarmi per la stranezza delle mie richieste. Mi risponde che in ciò che chiedo, non c’è nulla di strano. Anzi. Dimostra di sapere perfettamente, cosa mi piace e cosa no, tra le maschere che avevo visto. Si alza e prende lo sciamano. Poi mi dice: il bastone intagliato che hai visto di sotto non lo vuoi vero ? Si.. non mi piace rispondo… è troppo elaborato tanto che mi pare finto. Hai ragione, mi dice, anche a me non convince. Sapeva già tutto. Prende uno scatolone, ci mette dentro lo sciamano e la faccia di radici con una pelle di volpe . Riportamele domani sera a quest’ora.
Ricordo che uscimmo da casa di Fulvio, per tornare in albergo, che era ora di cena. Sopra di noi, un cielo in transito e un infinito alternarsi, di nuvole e pallori. Dopo cena, andammo a fare le foto, all’inizio sotto la pioggia, e poi salendo fino a 1700 mt al Passo di Carezza, sotto folate di vento gelido misto a neve, e improvvise schiarite che facevano correre le nuvole stracciandole sulle creste.
La sera successiva, tornai alla stessa ora del giorno prima, a riconsegnare le maschere.
Gli feci vedere gli scatti della sera precedente, e ne rimase colpito. Mi disse di sentirsi poco bene, e mi chiese, se fossi in grado di camminare per un’ora nel bosco. Risposi, che se non si sentiva bene, avremmo potuto rimandare tutto, alla prossima volta.
Allora cominciò a raccontarmi di tutti i posti magici dei dintorni, dove saremmo potuti andare.
Presi nota.
Alla fine, prima di lasciarci, ricordo mi chiese cosa io avessi sognato la notte precedente. Nessuno di noi era stupito.
Gli dissi di aver sognato 10 navi che erano in fila, in attesa di attraccare al porto della mia isola.
Su di una, la prima, c’era mia figlia che non vedevo da tanto. Era dentro un sanatorio abbandonato, e la stavano per dimettere. Era guarita. Poi ci fu una seconda parte del sogno che non riuscii a raccontare.
Mi disse che le dieci navi, erano novità in arrivo e che non sapeva se fossero buone o cattive.
Ci lasciammo con la promessa di ritrovarci presto. Quando la betulla avrebbe cambiato la corteccia.
La prima volta che andai lassù, avevo 17 anni. Con il Club Alpino.
Avevamo le calze di lana lunghe fin sotto il ginocchio, sempre coperte di neve ghiacciata, che mettevamo ad asciugare sui caloriferi, insieme alle bucce di arancia.
E scarponi, pieni di grasso di foca.
Mia madre, si era fatta prestare per me, i calzoni da sci perché non potevamo comprarli.
Di quelli che avevano una fascia elastica che correva sotto la pianta del piede.
Una notte, per gioco, facemmo una seduta spiritica, e mi spaventai.
Ricordo che era una notte di luna come quella, e che ad un tratto scappai, e abbandonai il tavolo.
Avevo “chiamato” mio padre, e mi aveva parlato. Era morto da tre anni. Seduto in quel largo vano che, nelle case di malga separa le finestre di dentro da quelle di fuori, guardavo la valle sottostante sbandare, in qua e in là sotto la luce lunare.
Qualcuno mi teneva da dietro, stringendo il diaframma. Forse era mio fratello. Svenni.