La prima volta arrivai a Pantelleria nel 68. L’anno in cui mio padre morì e fu un autentico giramento di scatole. Odiavo il pesce, il sesamo e soprattutto il mare, nel quale ero quasi morto affogato poco tempo prima. Odiavo soprattutto il vento, che increspa continuamente quel mare, perché mi impediva di fare pace con il mio terrore per l’acqua, che temevo e temo più dell’acqua stessa. Per riparare a quella, che tutto era meno che una diceria me ne stavo distante dalla riva e passavo interi pomeriggi a casa della zia Angiolina.
Immagine retorica, quanto solida, di isolana verace. Viveva in una casa tutta turchese, piena di armadi sbrindellati, assestati a forza nelle nicchie dei muri. Era minuta, di carnagione olivastra, vestita di nero, con delle grandi labbra scure e qualche solitario dente. Era stata bella e fragrante come solo una voce sola sa essere. Vispa ed elegante, come una domenica d’Aprile é la notte. Gli occhiali pendenti a maestrale, riparati alla meglio con dei cerotti. Sul tavolo pieno di panni, in bella mostra, una quantità di “mustazzoli” vivaci e freschi, dentro un cesto apparentemente sfondato, e cosparsi di perline colorate, e così intonate al resto. Circondati da mosche voraci, che la rete del paniere teneva lontane. Non osavo mangiarne uno, perché non amavo il cibo e dicevo di no a tutto.
Non avrei sopportato di dover mangiare qualcosa che poteva non piacermi, irretito palesemente da quel principio che diceva, che se si morde qualcosa, va mangiato comunque. Non volendo correre il rischio, mi limitavo a guardarli, e con gli occhi mi convincevo che non sarebbero andati giù neanche a calci. Solo rubandoli avrei potuto tentare l’assaggio, e non visto, sputare il resto qualora non mi fosse piacuto. Il sapore poi, in che modo sarebbe stato diverso da ciò che vedevo? Perché rischiare di far torto ad un senso? Il solo guardarli, già mi rendeva completo e in difetto. Era il segno dell’adolescenza. L’età che l’istinto preferisce. Erano lì per i suoi nipoti, più sodi e più belli di me, e non certo per chi poteva viaggiare in aereo, un fokker a due ali, a due motori e a due file di posti. Ciò che per altri era una liturgia, per me era solo tentazione a cui cedere. O erano per le gite a Ghirlanda, dove non trovando albicocche, erano il premio della sosta innaffiata con orzata fresca. Si, ne avrei rubato qualcuno, invece che dare soddisfazione e dire grazie. Così come si ruba uno sguardo tra due che si cercano, o come nascosti si ascolta il rumore di vecchie che parlano “stritto stritto” dalla porta di là. Quell’adorabile Andante così sconosciuto e perverso, che è l’ascoltare ciò che non ci riguarda. Ciò che non si comprende o che si ignora, ma che ingrassa inevitabilemte le parole e i giudizi che verranno. In realtà i miei miti erano altri. Erano le palline colorate che c’erano sopra attaccate alla glassa, ed era l’hangar abbandonato del vecchio aeroporto Pantesco. Altro che il mare e gli azzurri fondali d’una futura riserva di interessi.
Mi decisi a compiere il furto, e complice l’andata verso l’aeropoto a prendere qualcuno con mi zia, nell’attesa scappai verso l’hangar poco distante. Arrivai nell’enorme deposito di guerra abbandonato, urlando vittorioso con il trofeo in mano, e con la glassa ormai che colava sui polsi tirando fuori i mostazzoli dalle tasche. Calpestando veloce il pavimento pieno di bulloni, e alzando cumuli di polvere. Regista ed attore del mio film d’ essai preferito, spuntai dall’angolo d’entrata avvolto da un cencio di luce radente e spinto da un vento incessante, che alzava un ventre di polvere vecchia e pesante, oleosa. I calzoni corti strappati da zingaro inerme, e in tasca un poco di tutto. Correndo beato del furto alla zia, che poi zia a me non era e parafrasando alla meglio, urlavo con tutto il fiato che avevo sul davanzale del petto……amoninneeee picciottti..! , imitando il cacciatore mezzo guercio che veniva chiamato “lo ghiennero” e con cui andavo a caccia e della cui benevolenza, andavo decisamente orgoglieso. Berciando così, mi spinsi fin sotto gli aerei abbandonati lì dalla guerra. Poi fermo aspettai.
L’ eco dell’ urlo, e del battito di piedi, sembrava avesse la forza di staccare la tomaia dai sandali. Si ripeteva all’infinito, facendo fuggire le tortore che avevano fatto di quella dimora di guerra, un unico scempio di cacca d’autore. Sparsi a caso nell’hangar, gli stukas tedeschi accasciati sull’ ala. Salito al posto di guida, afferrata la cloche con un mano, addentai il furto, leccando prima le sole palline rosse. Un vero corpo a corpo. Misto a un profumo di olio mai secco, e dei fusti di morchie antiche oramai. Sapevano d’ arancio mica storie. Qualcuna bianca era più dura, ed era ostile al sapore. L’affogavo mischiandola all’impasto dolciastro , per poi sputarla sul vetro rotto, chissà quanto tempo prima da un proiettile o forse da un turista-erectus a due cuori. Con la bocca stuprata, e piena di mandorle e secco. Erano ottimi.
Non c’era, nelle case di allora la rassicurante ossessione dei Padrepii di plastica fosforescente, ma tanti santi di maggiore candore. In salsa turchese. Antonino,Vincenzino…un mondo declinato per ino, per vino o postino. L’unico telefonino era “la telefonista”. All’incrocio di quattro vicoli sganasciati, che veniva chiamata La crociera, c’era un indefinibile antro ad uso tabaccheria. Era pieno di ogni sorta di impicci, e dove sostava appoggiata ad una immensa telefonista, l’unica cabina telefonica esistente nel raggio di 10 km e dalla quale si usciva grondanti di sudore e di parole non comprese. Serviva solo a dire che si era vivi a chi era lontano, e che si era fatto chiamare a quel giorno e a quell’ora. Puntuali per favore. Sull’isola non c’era una siepe guarnita come da rivista, né uno stupore di architetta di Milano centro. L’isola era interamente percorsa da strade bianche, da asini e da carretti improvvisati.
Sdraiato sulla ducchena, di nascosto, trangugiavo passito riserva non sapendo quanto ne bastasse ad un bimbo per essere più allegro. Perso e in calore, ascoltavo Angiolina in casa aggiustare la sera alla meglio, e alla radio, una voce pacata che odorava di minestra. Radio sera. Il conforto prima del buio. Unica voce tra tante a smorzare il frastuono del cielo sul mare, e dell’azzurro sul petto. A tavola l’inutile pianto dei calamari tagliati precisi ad anello, scansati ed offesi, che appena voltatasi lei, finivano al gatto. Eran proprio buoni sai ? (mi diceva il micio sornione) ..ne avresti mica giusto un altro ?..Ed io, “contentati caro che il domani per te non c’ è, tanto quanto per me che sono un’artista”
Chi di noi sapeva che tutto questo sarebbe scomparso? Nessuno ci ha avvisato. E se avesse potuto, lo avrebbe fatto davvero ? Qualcuno poteva immaginare che ci sarebbe rimasto così impresso dentro di noi al punto di conservarlo con tanta devozione? E chi avrebbe immaginato allora, l’avvento di tanta insistente umanità convinta d’essere il centro del mondo, perché altrove non era nessuno ? E che fine avrebbe fatto il ricordo? Aggiunto, ripreso e cucito, tra qualche ombra di bandito acquattato tra gli schioppi pronti appesi, sarebbe rimasto sotto il pastrano per sparare alle lepri e guarnire la notte, di incanti e di paura.
DEDICHE
Dedicato a quel recidivo tornare in un posto, al ri-edire del “genere segno o sogno” che sia, dove fanno eco solo dei pezzi che alcuni pensano essere rari, e che ora dirò essere soltanto dei mustazzoli. Grondanti di glassa e memoria. Dedicato a quell’umanità silenziosa,“interperrita”, un pò storpia, e per questo felicemente cafona, che non sa ancora perché deve riconoscersi in qualcosa, o in qualcuno per esser sicura di esistere. O che si contenta di vivere così, anche a prova di difficoltà materiali e spirituali. O che si ritrova magari in un colore convinto o nelle parole di un santo solo meglio se vissuto ante litteram. Ma se dessimo un premio a chi scopre dove la musica vive e si accoppia??. Riusciremmo a scansare il senso d’ incertezza che si perpetra sopra di noi, a futura memoria, per farne un ricordo possente ed un abito meno attillato?
Più tempo, credo sia la richiesta di noi tutti che siamo i ritrovati. Più tempo per capire ed imparare, nonostante le incipienti storture e le ingiustizie per le quali i sognatori soffrono in dignitoso, quanto abominevole silenzio. Il vivere ” migliore” che c’è stato imposto, non ha un contenuto spesso diverso dal diritto di averlo acquisito, ma perchè non farne qualcosa di diverso? Potremmo rinunciare ? Sì, grazie. Confido nell’ inesauribile desiderio di sogni, nonostante la tenera età che oggi propongo a me stesso. Ogni giorno ( più o meno…) mi telefono con un amico, per sapere quanti anni abbiamo a prescindere, e ci avvicendiamo di adolescenze, in vecchiaie a ritmo serrato, nella netta certezza, che non invecchieremo mai lo stesso giorno, o peggio insieme.
Uno dovrà rimanere a badare all’altro. E mi sento avere sempre meno anni di quelli che ho, e meno tempo per vivere in pace dall’inevitabile inizio …