07Feb.2015
Imagine a band of twenty wild musicians in a procession. Imagine them coming down a dark alley on a summers night.
With lots of people on balconies and against the walls to let them by.
To noisily enter a square, nearly marching, one of those squares with the walls drenched in the moonlight of a Julys full moon.
Imagine the furtive looks between them as, holding hands they form a circle to keep the greedy and hungry crowd at bay.
And they haven’t even began.
Imagine a sudden silence and the trumpets blowing, while a girl holding batons with flaming ends, spreads the smell of kerosene and flames to keep the onlookers away as if they were hungry wolves.
In the center sits Bubo, the oldest, keeping time he taps his foot patiently, gently, and watches the crowd knowingly. He is already sweaty and tired, in a short while the square will no longer be the same.One square, one uproar.
All of a sudden a trumpet solo, and then all together searching for a riot of notes.
And the crowd hit with a shiver, relax and enjoy.
Shouts with a touch of drunkenness, people pushing, unleash and wish to make love to the sax and burn in the fire.The sax turns and sends them away scolding them with notes.Low and sensual, curvy like the flesh of a bed.
A man with a red rimmed black hat stands in the middle, giving orders and while spitting fire up to the sky, the music bursts out.
This is Zastava Orkestar
P.C. © larecherchestudio.com © All rights reserved.
90 anni
Ho un vago ricordo del contorno di quel mattino di prima estate di 35 anni fa.
Avevo smontato dal servizio di guardia al ministero dell’ Aviazione, dove prestavo servizio mio malgrado. Allora, la leva militare, era obbligatoria. Avevo passato una notte insonne a sorvegliare la cassaforte dell’edificio, in un corridoio ipnotico ed estenuante, dove mi sembrava veramente poco probabile che fossero custoditi dei soldi.Ci alternavano alla custodia di un ufficio dalle grandi vetrate. Quattro ore di sonno e due di veglia.
Verso l’alba fui spostato al giardino adiacente l’edificio, e complice dell’auricolare che mi legava ad una minuscola radio a transistor, lo ammetto, caddi addormentato nel prato stringendo il fucile di ordinanza crogiolato dal primo pallido sole. Fui svegliato dai colpi di tosse sempre più insistenti, dal capofila del gruppo che veniva a controllare il mio operato verso le 7 del mattino. Lo sentii, con l’estremo angolo dell’occhio che avevo tenuto aperto. Dietro, in fila indiana, l’ufficiale di picchetto e altri due. Per un puro caso riuscii alzandomi, a dare l’impressione che stessi compiendo il mio dovere intimando l’altolà al gruppo, e con il cuore gonfio di paura per la punizione in cella di rigore che sembrava essere scontata. L’ufficiale di picchetto, l’unico al quale poteva interessare infliggerla, forse aveva più sonno di me e non si accorse o meglio ancora fece finta di…
Fu la mia ultima guardia. Decisi in quel risveglio, che avrei fatto di tutto per terminare il servizio militare prima della sua naturale fine.
E così fu, ad opera di un complicato intrallazzo, che posi in essere nelle settimane seguenti. Tornando a casa meditavo sulla fortuna che avevo avuto e su come organizzare la mia fuga nei dettagli. Aprendo il portone, mi ricordai di essere solo. In casa avvertii un odore prepotente di radici strappate e ancora avvolte di terra bagnata, che venivano dal terrazzo. Mia madre, aveva sradicato le ortiche dai vasi in fioritura, la sera prima. Le finestre erano aperte. L’unica ad essere socchiusa era quella della mia camera, che per mio espresso desiderio in quella stagione, doveva rimanere in quella posizione per lasciare la camera, nella penombra che preferiva.
Fuori sul muro, proprio accanto alla cornice di cemento che guarniva la finestra, salendo sulla grondaia del piano che abitavo, il quinto, avevo disegnato un grande asterisco bianco con una vernice bianca. Per trovarla da lontano con lo sguardo. E per ritrovarvi puntualmente affacciata, mia madre, quando al mattino andavo a piedi al ginnasio. Sapevo che era lì a guardarmi, neanche partissi in viaggio per Macao. Facevo quel tragitto, partendo da quel punto, tutte le sante mattine. Con qualsiasi tempo, andata e ritorno.
Ma quel giorno in casa non c’era nessuno. Al mio entrare in camera, volsi lo sguardo alla mia radio. L’avevo comprata un anno prima da un rigattiere di Copenaghen dove vivevo.
Era grande, di legno lucido, e di notevole potenza. Aveva dei pomelli che con il tempo si erano usurati, cosi come i supporti che trasmettevano il movimento a quel complesso insieme di valvole che era al suo interno. Era del 1935. Segnava tutte stazioni del Mar Baltico e della Russia, sulle quali a volte a notte fonda mi sintonizzavo per sentire l’Internazionale in versione originale.
Era posizionata al centro di un grande mobile basso e lungo, all’interno del quale custodivo le mie cose più personali ed intime. Ci tenevo anche dieci milioni di lire che un mio amico del Pigneto mi aveva dato da custodire. Nascosti in una intercapedine che avevo creata apposta.
Guardai la radio con quello sguardo tipico di chi cerca una risposta. Non avevo soldi per comprare dei dischi ed era il mio unico contatto con la musica, complice un suono felpato e maschio che diffondeva.
Mi ero spogliato di tutto e prima di sdraiarmi, l’accesi, e mi avviai lemme verso il letto al fianco del tavolo da lavoro dove ero solito cucire mentre l’ascoltavo la sera, rigorosamente a porta chiusa quasi di nascosto da mia madre. Provavo gelosia della mia intimità con la mia radio e di ciò che via via ascoltavo mentre lavoravo.
Ricordai a me stesso di aver sentito, durante il turno di guardia di qualche giorno prima, un pezzo di cui non avevo fatto in tempo a capire il titolo, ma ricordavo, che si trattava di un tale Ravel. Maurice. E quell’ascolto aveva provocato un tarlo dentro di me, tale da pretendere un bis.
Ci vollero alcuni minuti perché il volume cominciasse a partorire il suono. Le valvole si dovevano scaldare. Cosi mi disse l’uomo che me l’aveva venduta gesticolando in danese come se io di radio, fossi un esperto.
Mentre nudo mi accomodavo sul letto rifatto, senza la minima referenza per il suo ordine, pensavo alla fuga dalla caserma. Quando ad un tratto, silenzioso e impalpabile, con un glissante inizio di archi, la Pavane pour une infante défunte, invase la camera e la mia voglia di fuga.
Il pezzo che qualche attimo prima avevo desiderato. Da quel giorno, ovunque io sia vissuto, la radio nella cucina è sempre accesa. Giorno e notte.
Ieri Vergo, un amico, mi ha chiesto:
Perché tieni la radio sempre accesa, anche quando non ci sei ?
Perché non si senta mai sola..
J.K.
www.larecherchestudio.com ©
email larecherche@larecherchestudio.com
Arcano XII
Se non vado errato, l’occupazione di Pisa cominciò quel giovedì 29 febbraio.
Stavo percorrendo la strada che lungo monte la collega a Lucca, quando verso le 7 di mattina, mi trovai all’ improvviso di fronte alla sagoma del battello sociale dei nostri invasori, sdraiato sulla pancia.
Si ergeva ad una sessantina di metri da terra sovrastando le case, e percorreva l’ orizzonte, dal traforo che collega Pisa con Lucca, fino alla Telecom. Sembrava una baguette calpestata, biancastra e ovale, quasi del tutto piatta nel ventre, con i bulloni di giuntura delle lamiere bene in vista, e perché si svuotasse del suo esercito ci vollero quasi 28 giorni. Era vicino alla casa di quel tipo che tutti chiamano Murphy.
Delle semplici scale di corda pencolavano dalle migliaia di oblò che foravano la carlinga, e che con inesorabile lentezza, vomitavano uno ad uno il soldati di quell’ impero che da allora ci sottomette.
Bianchi, trasparenti e un pò cerulei, si sparsero a centinaia di migliaia in tutta la nazione.
Ebbi l’impressione che fosse finita per tutti, senza che potessimo ritenerci sorpresi.
E poi fu certezza.
Ad ognuno di noi ne toccò uno in sorte. Il mio mi raggiunse, avvicinandosi con un passo felpato e certo, mentre ero lì che guardavo la scena, quasi paralizzato.
Dicono che all’interno di quella cattedrale volante, ci fosse una unica grande sala, grande quanto la sua superficie. Al suo interno i soldati celesti in fila, e divisi da un largo quanto inutile corridoio centrale.
Al centro, in fondo, rialzata su 12 di gradini una grande piattaforma bianca, culminante con una grande spianata, al cui centro si stagliava una figura appesa a testa all’ ingiù coperta di miele.
Irradiava una luce propria, ed un silenzioso quanto amorevole sciame d’api la divorava. Un appeso.
A pochi passi da questa, un altra figura salmodiava in piedi mimando la sua stessa voce senza che s’ udisse parola. E a chi con deferente e giustificato timore vedeva la scena da lontano, sembrava che quella sorta di celebrante leggesse un piccolissimo volume che inforcava tra le mani, scandendo un labiale esagerato e muto, di cui tutti gli astanti, sembravano attoniti capire il senso.
Si trattava di una di quelle presenze che invocano e preludono spiegazioni urgenti.
Gli invasori ci liberarono definitivamente da ogni forma di demagogia.
Non c’erano più gli estremi perché la politica venisse praticata come un esodo estivo, etico e morale, ed in quanto tale venne censita tra i vizi capitali.
Molti furono i vantaggi che quella dominazione portò in quella regione. Io stesso ero riuscito a creare una partizione dentro di me in virtù di questo. La usavo per custodire intatte le mie intensità. E spesso passavo le sere a ritrovare tutte le mie prime volte. Un cammeo dopo l’altro.
Sparirono tutte le forme di accidia esistenziale, e le Misericordie di paese. Scomparve il senso di colpa che la macrobiotica induce per non essere stati migliori, almeno fin lì.
Sparì la morte prima degli 85 anni se non volontaria. Sparirono molte forme di indifferenza. Rimasero solo quelle plausibili.
E l’ amore tra generi diversi non fu più considerato un opzione di default. La storia dell’ arte divenne l’ unica materia imposta agli studenti dai 10 anni in giù.
Successe un casino ovviamente.
p.c. all right reserved www.larecherchestudio.com
Often, faced with choices that you have to do to embark on a journey, there might be to be able to take a ship, or alternatively a plane.
Here are at least a dozen reasons why the choice should not be so complicated. All in relation to the fact that, all you need , is less.
http://www.larecherchestudio.com/lr/sliders-list/all-you-need-is-less/
A.A. www.larecherchestudio.com © all right reserved
Gibellina e Poggioreale. Due paesi dell’entroterra siciliano. Entrambi colpiti dal sisma del 1968 che rase al suolo Gibellina e ferì gravemente Poggioreale, che dista appena 15 km.
Ciò che rimane della vecchia Gibellina è il Cretto di Burri. Una colossale opera di copertura delle rovine, con dei blocchi di cemento, che ricalca il tracciato viario del paese distrutto, e che appare da chilometri stagliato nella collina, come un immensa lapide percorsa da crepature. Lo trovai per caso vagando per la Sicilia, il giorno di un mio ennesimo solitario compleanno di tanti anni fa.
Era caldo, verso ora di pranzo cercavo un posto dove ripararmi. Mi addormentai in macchina vicino all’ingresso del labirinto. Sognai di vagarci dentro per chiedere perdono a qualcuno che non riuscivo a trovare. Queste fotografie sono forse la trasposizione di quel sogno.
Viste le attuali condizioni del Cretto di Burri e di Poggioreale, verrebbe da chiedersi quale intenzione politica sia in grado di lasciare un segno migliore di quello passato, e in nome di cosa intenderà farlo. Ma soprattutto se ancora ne esiste una, visto che ancora confondiamo la politica con chi la decide. Cioè noi.
Poggioreale oggi appare come il simbolo dell’impotenza di un tessuto sociale , che non riesce ad avere una consapevolezza della sua memoria. Mettere mano seriamente ad un progetto di tale portata, ( Poggioreale è considerata l’unica ghost town dell’intera Sicilia) sarebbe un atto di coraggiosa onestà intellettuale, che la politica non ricorda più di dover esprimere, ma soprattutto perché la forza di chi la elegge è debole e complice.
Ciò che è stato è stato. L’incuria, la mancanza di rispetto, la mafia, sono dei cliché nei quali bisogna avere lo stomaco di non cadere e viene dunque da chiedersi, come e dove trovare il senso nel proporre giornate della memoria, se le nostre esistenze sono prive di tentativi per crearne una. Forse sarebbe più semplice sancire con più onestà ancora, che c’è poco da fare, farsene una ragione, e celebrare la fine che è sempre dentro ogni inizio. O viceversa. Questa raccolta di immagini intende rendere qualcosa all’urlo che ancora vaga tra quei vicoli, e al lutto ormai maturo, per la perdita di tutti i simboli della civiltà contadina nel nostro quotidiano.
Nel farlo, ci siamo posti infine, la domanda sul perché, e se fosse giusto danzare in un cimitero. E se fosse giusto rivolgersi ai morti in questo modo ed in netto contrasto alla loro condizione.E questa ci è parsa provocatoriamente, l’unica chance che avevamo per crearci noi stessi una memoria, ed onorarne un altra.
Ed abbiamo offerto loro la nudità, in cambio del perdono.
http://www.larecherchestudio.com/lr/sliders-list/antonio-sardella/
Photo larecherchestudio © P.C. Credits : Antonio Sardella Classic and Modern Dancer – Giusy Di Malta Assistent
04Mag.2014
La prima volta arrivai a Pantelleria nel 68. L’anno in cui mio padre morì e fu un autentico giramento di scatole. Odiavo il pesce, il sesamo e soprattutto il mare, nel quale ero quasi morto affogato poco tempo prima. Odiavo soprattutto il vento, che increspa continuamente quel mare, perché mi impediva di fare pace con il mio terrore per l’acqua, che temevo e temo più dell’acqua stessa. Per riparare a quella, che tutto era meno che una diceria me ne stavo distante dalla riva e passavo interi pomeriggi a casa della zia Angiolina.
Immagine retorica, quanto solida, di isolana verace. Viveva in una casa tutta turchese, piena di armadi sbrindellati, assestati a forza nelle nicchie dei muri. Era minuta, di carnagione olivastra, vestita di nero, con delle grandi labbra scure e qualche solitario dente. Era stata bella e fragrante come solo una voce sola sa essere. Vispa ed elegante, come una domenica d’Aprile é la notte. Gli occhiali pendenti a maestrale, riparati alla meglio con dei cerotti. Sul tavolo pieno di panni, in bella mostra, una quantità di “mustazzoli” vivaci e freschi, dentro un cesto apparentemente sfondato, e cosparsi di perline colorate, e così intonate al resto. Circondati da mosche voraci, che la rete del paniere teneva lontane. Non osavo mangiarne uno, perché non amavo il cibo e dicevo di no a tutto.
Non avrei sopportato di dover mangiare qualcosa che poteva non piacermi, irretito palesemente da quel principio che diceva, che se si morde qualcosa, va mangiato comunque. Non volendo correre il rischio, mi limitavo a guardarli, e con gli occhi mi convincevo che non sarebbero andati giù neanche a calci. Solo rubandoli avrei potuto tentare l’assaggio, e non visto, sputare il resto qualora non mi fosse piacuto. Il sapore poi, in che modo sarebbe stato diverso da ciò che vedevo? Perché rischiare di far torto ad un senso? Il solo guardarli, già mi rendeva completo e in difetto. Era il segno dell’adolescenza. L’età che l’istinto preferisce. Erano lì per i suoi nipoti, più sodi e più belli di me, e non certo per chi poteva viaggiare in aereo, un fokker a due ali, a due motori e a due file di posti. Ciò che per altri era una liturgia, per me era solo tentazione a cui cedere. O erano per le gite a Ghirlanda, dove non trovando albicocche, erano il premio della sosta innaffiata con orzata fresca. Si, ne avrei rubato qualcuno, invece che dare soddisfazione e dire grazie. Così come si ruba uno sguardo tra due che si cercano, o come nascosti si ascolta il rumore di vecchie che parlano “stritto stritto” dalla porta di là. Quell’adorabile Andante così sconosciuto e perverso, che è l’ascoltare ciò che non ci riguarda. Ciò che non si comprende o che si ignora, ma che ingrassa inevitabilemte le parole e i giudizi che verranno. In realtà i miei miti erano altri. Erano le palline colorate che c’erano sopra attaccate alla glassa, ed era l’hangar abbandonato del vecchio aeroporto Pantesco. Altro che il mare e gli azzurri fondali d’una futura riserva di interessi.
Mi decisi a compiere il furto, e complice l’andata verso l’aeropoto a prendere qualcuno con mi zia, nell’attesa scappai verso l’hangar poco distante. Arrivai nell’enorme deposito di guerra abbandonato, urlando vittorioso con il trofeo in mano, e con la glassa ormai che colava sui polsi tirando fuori i mostazzoli dalle tasche. Calpestando veloce il pavimento pieno di bulloni, e alzando cumuli di polvere. Regista ed attore del mio film d’ essai preferito, spuntai dall’angolo d’entrata avvolto da un cencio di luce radente e spinto da un vento incessante, che alzava un ventre di polvere vecchia e pesante, oleosa. I calzoni corti strappati da zingaro inerme, e in tasca un poco di tutto. Correndo beato del furto alla zia, che poi zia a me non era e parafrasando alla meglio, urlavo con tutto il fiato che avevo sul davanzale del petto……amoninneeee picciottti..! , imitando il cacciatore mezzo guercio che veniva chiamato “lo ghiennero” e con cui andavo a caccia e della cui benevolenza, andavo decisamente orgoglieso. Berciando così, mi spinsi fin sotto gli aerei abbandonati lì dalla guerra. Poi fermo aspettai.
L’ eco dell’ urlo, e del battito di piedi, sembrava avesse la forza di staccare la tomaia dai sandali. Si ripeteva all’infinito, facendo fuggire le tortore che avevano fatto di quella dimora di guerra, un unico scempio di cacca d’autore. Sparsi a caso nell’hangar, gli stukas tedeschi accasciati sull’ ala. Salito al posto di guida, afferrata la cloche con un mano, addentai il furto, leccando prima le sole palline rosse. Un vero corpo a corpo. Misto a un profumo di olio mai secco, e dei fusti di morchie antiche oramai. Sapevano d’ arancio mica storie. Qualcuna bianca era più dura, ed era ostile al sapore. L’affogavo mischiandola all’impasto dolciastro , per poi sputarla sul vetro rotto, chissà quanto tempo prima da un proiettile o forse da un turista-erectus a due cuori. Con la bocca stuprata, e piena di mandorle e secco. Erano ottimi.
Non c’era, nelle case di allora la rassicurante ossessione dei Padrepii di plastica fosforescente, ma tanti santi di maggiore candore. In salsa turchese. Antonino,Vincenzino…un mondo declinato per ino, per vino o postino. L’unico telefonino era “la telefonista”. All’incrocio di quattro vicoli sganasciati, che veniva chiamata La crociera, c’era un indefinibile antro ad uso tabaccheria. Era pieno di ogni sorta di impicci, e dove sostava appoggiata ad una immensa telefonista, l’unica cabina telefonica esistente nel raggio di 10 km e dalla quale si usciva grondanti di sudore e di parole non comprese. Serviva solo a dire che si era vivi a chi era lontano, e che si era fatto chiamare a quel giorno e a quell’ora. Puntuali per favore. Sull’isola non c’era una siepe guarnita come da rivista, né uno stupore di architetta di Milano centro. L’isola era interamente percorsa da strade bianche, da asini e da carretti improvvisati.
Sdraiato sulla ducchena, di nascosto, trangugiavo passito riserva non sapendo quanto ne bastasse ad un bimbo per essere più allegro. Perso e in calore, ascoltavo Angiolina in casa aggiustare la sera alla meglio, e alla radio, una voce pacata che odorava di minestra. Radio sera. Il conforto prima del buio. Unica voce tra tante a smorzare il frastuono del cielo sul mare, e dell’azzurro sul petto. A tavola l’inutile pianto dei calamari tagliati precisi ad anello, scansati ed offesi, che appena voltatasi lei, finivano al gatto. Eran proprio buoni sai ? (mi diceva il micio sornione) ..ne avresti mica giusto un altro ?..Ed io, “contentati caro che il domani per te non c’ è, tanto quanto per me che sono un’artista”
Chi di noi sapeva che tutto questo sarebbe scomparso? Nessuno ci ha avvisato. E se avesse potuto, lo avrebbe fatto davvero ? Qualcuno poteva immaginare che ci sarebbe rimasto così impresso dentro di noi al punto di conservarlo con tanta devozione? E chi avrebbe immaginato allora, l’avvento di tanta insistente umanità convinta d’essere il centro del mondo, perché altrove non era nessuno ? E che fine avrebbe fatto il ricordo? Aggiunto, ripreso e cucito, tra qualche ombra di bandito acquattato tra gli schioppi pronti appesi, sarebbe rimasto sotto il pastrano per sparare alle lepri e guarnire la notte, di incanti e di paura.
DEDICHE
Dedicato a quel recidivo tornare in un posto, al ri-edire del “genere segno o sogno” che sia, dove fanno eco solo dei pezzi che alcuni pensano essere rari, e che ora dirò essere soltanto dei mustazzoli. Grondanti di glassa e memoria. Dedicato a quell’umanità silenziosa,“interperrita”, un pò storpia, e per questo felicemente cafona, che non sa ancora perché deve riconoscersi in qualcosa, o in qualcuno per esser sicura di esistere. O che si contenta di vivere così, anche a prova di difficoltà materiali e spirituali. O che si ritrova magari in un colore convinto o nelle parole di un santo solo meglio se vissuto ante litteram. Ma se dessimo un premio a chi scopre dove la musica vive e si accoppia??. Riusciremmo a scansare il senso d’ incertezza che si perpetra sopra di noi, a futura memoria, per farne un ricordo possente ed un abito meno attillato?
Più tempo, credo sia la richiesta di noi tutti che siamo i ritrovati. Più tempo per capire ed imparare, nonostante le incipienti storture e le ingiustizie per le quali i sognatori soffrono in dignitoso, quanto abominevole silenzio. Il vivere ” migliore” che c’è stato imposto, non ha un contenuto spesso diverso dal diritto di averlo acquisito, ma perchè non farne qualcosa di diverso? Potremmo rinunciare ? Sì, grazie. Confido nell’ inesauribile desiderio di sogni, nonostante la tenera età che oggi propongo a me stesso. Ogni giorno ( più o meno…) mi telefono con un amico, per sapere quanti anni abbiamo a prescindere, e ci avvicendiamo di adolescenze, in vecchiaie a ritmo serrato, nella netta certezza, che non invecchieremo mai lo stesso giorno, o peggio insieme.
Uno dovrà rimanere a badare all’altro. E mi sento avere sempre meno anni di quelli che ho, e meno tempo per vivere in pace dall’inevitabile inizio …
p.c © all rights reserved www.larecherchestudio.com
01Mag.2014